In questi giorni le riflessioni sono inevitabili, bussano a tutte le ore e non si può lasciarle fuori dalla porta. Ce n'è una in particolare che mi torna spesso in mente e allora ho deciso di metterla per iscritto, sollecitata anche dall'articolo di Maria Piera Ceci «Il prof ti viene a prendere attraverso la webcam» che per il Sole24Ore ha intervistato la mitica professoressa Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e prorettrice dell’università di Padova, sulla situazione della didattica a distanza che le scuole di tutta Italia, di ogni ordine e grado, si sono trovate e vivere.
«La tecnologia» dice
«invece di essere qualcosa che sostituisce la presenza del
professore, è qualcosa che consente la presenza del professore. (…)
La tecnologia che fa la tecnologia e non che fa qualcosa al posto
nostro. A cui non viene più affidato il compito di impegnare il
nostro tempo e di risolvere le nostre difficoltà, ma la tecnologia
in cui l’umano utilizza un mezzo per arrivare all’altro umano.»
Come non essere d'accordo. Quello che ci è capitato, da un mese a
questa parte, è qualcosa di inimmaginabile che destabilizza tutti, a
prescindere dal ceto, dalla professione, dalla cultura, siamo tutti
nel gigantesco frullatore, per citare Dario Amadei, che è stato
acceso contro la nostra volontà, ma che inevitabilmente ci risucchia
inermi nel suo vortice. Per non stare solo a guardare gli avvenimenti
accadere e per non perdere di più di quanto perderemo, ecco che per
la maggior parte delle professioni, soprattutto quelle scolastiche, è
stato attivato lo smart working o lavoro agile ed ecco che insegnanti
di ogni ordine e grado riempiono i loro dispositivi con vari software
per permettere la tanto idealizzata didattica a distanza. Il
pensiero, però, che da dieci giorni bussa alla mia porta non è
tanto l'efficienza o meno di questo lavoro agile, quanto le menti dei
giovani e giovanissimi che sono stati, giustamente, allontanti da un
luogo, diverso dall'ambiente protetto di casa, che per loro non è
solo negativo (compiti, interrogazioni, incomprensioni di vario tipo)
ma aggregativo, in cui diventano grandi, in cui sviluppano il
pensiero critico, l'autonomia, in cui sperimentano emozioni positive
e negative che fanno crescere. E questo avviene solo grazie al
confronto umano con l'adulto di riferimento e con i compagni con cui
si relazionano. Più i bambini sono piccoli più il bisogno di
un'educazione umanizzata è imprescindibile e insostituibile, ma
anche per i ragazzi più grandi il contatto diretto è fondamentale.
Se l'insegnante, la famiglia, il ragazzo non sono smart così come li
vorrebbe la tecnologia, la possibilità di sentirsi “abbandonati”
non è così difficile e quello che mi auguro più di tutto è che
tutti noi adulti che lavoriamo con i ragazzi, a diverso titolo, ci
facciamo trovare pronti a sostenerli e ad abbracciarli quando tutto
questo sarà finito, perché il trauma vissuto in questo momento
potrebbe essere significativo e da non sottovalutare.
Elena Sbaraglia, psicologa, operatrice culturale
Nessun commento:
Posta un commento