martedì 8 luglio 2014

Let it Lok: Sogno di una notte di mezza estate

Ci sono alcune giornate che ci appaiono interminabili. Lunghe, lunghissime, infinite giornate affannose. Quando l’unico momento che attendiamo è gettarci sul nostro caro letto, spegnere la luce, chiudere gli occhi e dire momentaneamente addio al mondo. Spegnere la mente e trovare un po’ di pace, in un porto sicuro. Mettere da parte tutto e tutti, e immergerci a capofitto nei tortuosi meandri del proprio inconscio, lasciandoci cullare dall’intangibile fascino della notte. E sognare magari. Perché i sogni non sono altro che l’essenza della libertà, della beatitudine. Un momento di tangibile felicità, dopo ore ed ore di monotono tran-tran quotidiano. Attimi in cui persino l’inimmaginabile è possibile, accade; e tutto è semplicemente come noi desidereremmo che fosse.
Talvolta però, taluni sogni sono tutt’altro che estasi. Spesso pare che i fantasmi che ci perseguitano da svegli, non ci diano tregua mai, neanche nella notte. Sudiamo. Imprechiamo. Soffochiamo. Urliamo. Semplicemente non abbiamo pace. Bé, per me non si tratta di sogni. Piuttosto mi piace chiamarli incubi.
Questa notte ho vissuto una delle esperienze oniriche più coinvolgenti di sempre. E mi piacerebbe condividerla con voi, per mostrarmi come, persino l’incubo più terrificante, può trasformarsi nel sogno più incantevole.
“Sono le 10 di sera. Mi sveglio confusa e palpitante. È tardissimo. Sono in partenza per non so quale meta, e come sempre accade prima di un avvenimento rilevante, sono in super ritardo. Devo ancora sistemare i bagagli, trovare i documenti, fare una doccia, vestirmi, prepararmi. È una corsa contro il tempo. Tutti i miei abiti sono scomparsi dall’armadio. Impazzisco per casa alla ricerca dei miei effetti personali, ma niente di niente. Per di più mi sento intrappolata dalla pesantezza del sonno: gli occhi non vogliono restare aperti, le mie gambe sono stremate, la mia testa cade di qua e di là, in cerca di riposo. E il tutto non fa che rallentarmi. Una dannata corsa verso l’impossibile.
Esco di casa, con indosso soltanto il mio pigiamino. Sono scalza. E in mano ho un biglietto aereo, ma non riesco a leggere la destinazione. Cerco disperatamente un aeroporto o qualcosa del genere. Sono sola, disperata e persa nelle tenebre. Brancolo nel buio alla ricerca di una salvezza, lottando contro la pesantezza del dormiveglia. Di tanto in tanto in lontananza scorgo qualche figura evanescente, ma la mia voce sembra insonora. Grido, urlo, mi dimeno, ma nessuno mi dà ascolto. E ogni volta che riesco a raggiungere una di quelle presenze, questa si dissolve nel nulla. Corro. Corro. E ancora corro, in preda al panico più totale. Una maratona verso il nulla. Inciampo. Cado. Sembro quasi arrendermi e lasciarmi andare alla forza di gravità. Ma no. Mi rialzo. E continuo a correre. Sudo. Corro. Il mio cuore sta impazzendo. Urlo grida di silenzio. I piedi scalzi, sono sudici e insanguinati. Ma ancora corro. Fino a quando cado, di nuovo. (E se fino a quel momento fossi stata convinta di assaggiare il puro terrore, allora non saprei come definire ciò che mi sta per accadere). Vorrei rimettermi in sesto, ma non ce la faccio. Una misteriosa forza, più oscura e travolgente di quella di gravità mi trattiene al suolo. Mi sussurra che quello è il mio immodificabile destino. La fine della maratona. La mia fine. Vorrei reagire, ma i miei arti sono pesantissimi, e immobili. Come incatenati da qualcosa di invisibile. E ancora più straziante, vorrei gridare, ma la voce non fuoriesce. Ogni urlo soffocato ritorna giù come un amaro magone. È come se le mie labbra fossero incollate tra di loro. Continuo ad agitarmi. Tento di scalciare, di tirare pugni, ma ogni tentativo si rivela mera illusione. Sono intrappolata. Condannata. Non mi resta che accettare la mia condizione, chiudere gli occhi e smettere di sperare. Smettere di respirare. Perché ogni respiro equivale ad un struggente istante in più della tortura.
La resa però non è nel mio stile. Correrò la maratona fino al traguardo. Ricomincio a dimenarmi. Ci deve essere una soluzione. Per forza. Tutte le maratone hanno una linea di traguardo. Esattamente nell’istante in cui ogni sforzo mi era sembrato completamente vano, noto che riesco a sentire un filo di voce. Si, si, lentamente la mia voce sta riacquisendo il suo vigore. Un barlume di speranza. Non finisce qui, non per me. Gli arti però sono ancora bloccati. Mi sento tirare in quattro direzioni divergenti. Ma non mi arrendo. Combatto per svincolarmi, voltandomi a destra prima, a manca poi; come per scrollarmi di dosso quella forza oscura. Sudo. Grido. Impazzisco. E ancora grido. Sudo. Piango. Tremo. Sanguino. Grido per la disperazione. Per il dolore. O semplicemente perché sono ammattita. Ma non mi arrendo. E proprio quando sento di essere arrivata all’extremis, quando sto per gettare la spugna e cedere la mia anima alle tenebre; quando credo di non avere più alcuna ragione in nome della quale combattere; quando tutto è vano, e niente è stimolo, proprio allora affiora una forza misteriosa. Con tutta la mia energia residua, proietto il mio corpo verso destra e cado. Precipito. Sempre più in basso. E il solo poter muovere liberamente gli arti, mi da sollievo. Un incredibile gustosa soddisfazione. Un gesto così spontaneo, e naturale assume per me l’entità di un miracolo. E perdendomi nelle mie riflessioni, mi sveglio in un luogo totalmente diverso. Cammino sulla sabbia calda, sicura di me, vittoriosa, imponente come una grossa nave. Certa di aver tagliato il traguardo. Mi guardo attorno e percepisco di ritrovarmi in un paradiso terrestre. Il sole sta sorgendo. Il mare, cristallino, è calmissimo. Di qua e di là svolazza qualche gabbiano. È così bello udire finalmente i dolci suoni della natura.
La certezza di ritrovarmi in una sorta di locus amoenus, mi giunge quando scorgo lui ad attendermi tranquillamente seduto su uno scoglio. L’imperturbabile lui.
Corro a più non posso, ansiosa di gettarmi tra le sue braccia. Ed eccolo, finalmente a pochi millimetri da me. In quel preciso attimo ogni sforzo assume significato, ogni struggente lotta trova il suo conforto, il suo dolce ristoro. Mi abbraccia forte, e quell’abbraccio mi ridona la vita. Mi perdo nell’infinito dei suoi occhi verdi, che luccicano sotto la tenue luce del primo sole. Mi stringe più forte, inspira l’odore della mia pelle, e mi sussurra: “Finalmente! Tutta per me!”
Ci prendiamo per mano, e ci tuffiamo nell’immenso azzurro per vivere insieme il nostro sogno.”
Fine.
Filomena "Lok" Locantore

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