lunedì 14 aprile 2014

Voci di quartiere

"Il ponte dei sospiri" di Alfredo Tagliavia

Confesso: mi piace fare lunghe passeggiate da solo, specie la domenica mattina, se profuma di anticipo di primavera, spesso scelgo percorsi già noti, forse per marcare il territorio come gli animali randagi, o almeno luoghi di cui ho sentito già parlare tante volte, per trasformare l’immaginazione in realtà, avere la giusta misura dei pensieri in libertà. A volte, confesso, camminando per il mio quartiere, avvistando in lontananza qualche conoscente, cambio rapidamente marciapiede, lo faccio ben prima che lui possa accorgersene, non per antipatia, solo perché non mi va di interrompere il vortice dei pensieri che ispira la passeggiata, non scambiarlo con i convenevoli più o meno formali di un incontro casuale della domenica, e le vecchie melodie mi aiutano sempre tanto, confesso…
Per il “Ponte dei Sospiri” (per ora non si svela il mistero del nome) si parte da una piazzetta, confesso che è famosa solo perché ha un nome ben più importante di lei, oltre che per un negozio che sforna dolci e pizze a tutte le ore, da lì s’imbocca una discesa, il panorama già cambia, chi lavora con i suoni se ne accorge per il passaggio dal rumore al silenzio: sprazzi di campagna non addomesticata si aprono a destra e manca, il panorama diventa un po’ brullo, selvaggio, le macchine passano assai rare, il loro rumore è via via sostituito dal cicaleccio, il ronzio delle prime api che escono a primavera, il sole si fa più forte, gli spazi d’ombra radi. Ormai siamo già in un’altra piazzetta, al termine della discesa, una ex borgata costruita quasi sul livello del fiume: trent’anni fa confesso che qui giravano tipi poco raccomandabili, ragazzi di strada, oggi non è più così, se ne apprezza la tranquillità, prima c’era un grande spiazzale di terra battuta in mezzo all’erba, l’ideale per giocare a pallone, io ed i miei amici il sabato pomeriggio ci andavamo, c’erano un bel po’ di siringhe in terra, a volte arrivava un tipo che faceva paura, i grandi ci dicevano che era una persona pericolosa, violenta, in realtà era solo un poveretto, noi però a quell’epoca credevamo ai grandi, scappavamo o ci nascondevamo dentro i cancelli aperti dei garage, poi facevamo capolino pian piano. Dalla piazzetta parte una breve traversa e s’incrocia il “Chilometro”, una strada lunga e stretta, non ci passa un’anima, a parte qualche ciclista che va a rilento: anche questa è un’altra strada che non porta da nessuna parte, Martino Testadura l’avrà certamente percorsa qualche volta. Proseguendo verso sinistra si vedono solo piccoli cespugli di erba brulla da entrambi i lati, muriccioli bucati dai quali escono fiotti di lucertole velocissime, confesso che quando mi camminano quasi sui piedi mi mettono sempre allegria, non so perché, sarà forse la loro velocità vitale, oggi però non si gira a sinistra, si continua dritto per dritto e ce lo si trova proprio davanti, eccolo lì, in tutta la sua inutile imponenza, il “Ponte dei Sospiri”. Lo fecero chiudere, poi lo hanno riaperto, una quindicina d’anni fa, riuscendo a renderlo un po’ più stabile, come non si sa. Sotto al ponte passa una ferrovia, sembra quella di un piccolo paese di campagna, accanto ai binari del treno una piccola fattoria in miniatura, una casetta colonica a due piani, i panni sempre stesi ad asciugare in giardino, un orto con tanto di agrumeti, galline e animali da cortile, due cani che abbaiano e fanno la guardia, non si sa bene a cosa, a volte abbaiano al sole, altre volte al passante, quello dal pelo più chiaro spesso si arrampica fino all’estremità della sferragliata del ponte, confesso che quando fa così mi fa sobbalzare di spavento. Sull’altro lato del Ponte dei Sospiri – e qui confesso: si svela il mistero del nome – c’è quasi sempre qualcuno fermo, lo sguardo fisso immobile all’orizzonte (sfrecciare di macchine di un vialone di periferia), quasi sempre ha grossi bustoni pieni di cianfrusaglie assortite, come chi è venuto da molto lontano trascinandosi un gran peso appresso, quasi sempre non è italiano, sospira strane litanie in un dialetto indecifrabile, a volte accenna un lieve canto dolente, poi riprende a fatica i suoi bustoni, si rimette in movimento, una volta finito il rituale dei sospiri al panorama. Confesso che per uno scrittore (o scrivente) è sempre sconveniente citare nomi di luoghi o persone non puramente casuali, l’immaginazione dovrebbe essere fervida, la fantasia volare, ma in questo e solo in questo caso si farà un’eccezione, il luogo che si avvista dal Ponte, davanti al quale ci s’imbatte, scese le scale, attraversato il vialone periferico di macchine, è così unico e particolare da dover venire nominato senz’altri giri di parole: la Chiesa di Santa Passera.
La Chiesa è una costruzione di milletrecento anni fa, una casupola in legno, poco più di venti metri, due scalette d’accesso, un luogo di culto sempre chiuso, tranne la domenica a quest’ora, quando le due piccole campane sul comignolo si svegliano da un sonno millenario, iniziano a suonare dopo chissà quanto tempo, le porticine si aprono. La Messa scivola via veloce, non desta molto l’attenzione, sono più catturato dalla vista di uno scenario sempre immaginato e mai visto, il soffitto tipicamente medievale, romanico credo (ma di queste cose non me ne intendo, confesso), l’anticamera se possibile ancora più spoglia della chiesetta, colori scuri e ingialliti. Devo aver letto da qualche parte che c’è un piano inferiore con una cripta, e un altro piano sotterraneo, ma qui di tutto questo non si vede neanche l’ombra, forse dovrei partecipare ad una visita guidata… per dove sarà la via degli inferi? Alla fine della Messa la chiesa si è riempita, una trentina di persone al massimo, tutte di una certa età: confesso che accade spesso di trovarmi in mezzo a persone col doppio dei miei anni o anche più, quando di domenica me ne vado alla ricerca di luoghi sconosciuti, anche se non capisco perché non ci siano quasi mai giovani, è così bello vagare senza meta immaginando una città che non c’è più (o forse non c’è mai stata). Oggi poi ho camminato ben poco, da casa mia dodici minuti di buon passo cronometrati, per ritrovarmi in questo mondo altro di altri tempi. All’uscita della chiesa il sole si è fatto più forte, comincia a far caldo in questo preambolo di primavera, si assiste ad una scena incredibile. Mentre un’allegra famigliola – circa trenta persone ben pettinate e vestite a festa – aspetta con pazienza che l’assemblea esca per prepararsi al battesimo di un nuovo venuto, spunta fuori dai rovi, solo qualche metro più in giù, una donna dall’aspetto assente ma sorridente, i capelli spettinati sul bel viso in evidenza, veste solo i pantaloni, sopra è completamente nuda, si copre i seni con i lunghi capelli ondeggianti al vento, il frastuono familiare per qualche lungo secondo diventa silenzio, imbarazzo evidente, la donna passa in mezzo alla folla così com’è, nuda, fa un cenno al taxi che sta arrivando a Vicolo di Santa Passera, sorride con naturalezza, entra dentro l’automobile con il mondo attonito intorno – e anch’io, confesso. Forse era una prostituta, forse un transessuale, non so, mi ha fatto ricordare che il Vangelo della domenica ascoltato distrattamente era quello della Trasfigurazione, così ho preferito pensare che fosse un’apparizione, un’immagine antica spuntata fuori dal tempo, magari si nascondeva dentro la chiesa da almeno mille anni, chi lo sa. E poi, anche se fosse stata una prostituta o un trans, Gesù non sarebbe rimasto in silenzio di fronte a lei, non avrebbe provato imbarazzo per la sua nudità, ci si sarebbe messo a parlare sicuramente, forse anche a ridere o scherzare, chi lo sa, magari ci sarebbe pure salito su quel taxi – o forse è solo che mi piace pensare così, confesso. Adesso mi sento un po’ stordito dalle emozioni, sento proprio il bisogno di tornare a casa e di farlo in fretta, sarà che la Sindrome di Stendhal prende anche nei luoghi dove si è sempre vissuto? confesso che non ho altre spiegazioni plausibili. Dalla Magliana ai Grottoni a piedi è un attimo, la salita è ripida però, sembra quasi di non camminare né avanti né indietro, fortuna che di macchine ne passano pochissime, s’incrocia solo qualche ciclista della domenica sul lato opposto, discesa libera. Sul lato destro c’è uno dei prati più grandi del quartiere, è lo stesso che si vede dal balcone di casa mia, sono trent’anni che i politici locali lo dicono, su quel campo brullo ci costruiranno splendidi campi da tennis,da golf, parchi pubblici,belle panchine, ma è sempre rimasto tale e quale e confesso, la cosa non mi dispiace. Devo passare ancora davanti a un ipermercato, è aperto, fuori c’è sempre uno straniero, un omone alto e grosso che chiede l’elemosina, una rassegnazione che stona con la sua imponente figura, anche lui sospira sempre qualcosa, vorrei consigliargli di trasferirsi al Ponte dei Sospiri, magari gli porterebbe fortuna, chi lo sa… Quanti “sospiratori” come lui ho incontrato soltanto stamattina?, confesso, non le ho contate ma sono tanti, cinque, sei o sette persone davanti alle quali lo sguardo si ritrae, un po’ si nasconde, e non va bene. Voglio andare a casa, la domenica a quest’ora sento il bisogno di mettere su un po’ di vecchio jazz, o di bossanova suonata dalle big band degli anni Sessanta: dopo un sogno lungo un intero quartiere è ora di riaccostarsi alla realtà.

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