Evelina Santangelo, scrittrice
palermitana e cittadina del mondo, ci consegna un romanzo “di formazione” (a
mio giudizio) in un’epoca in cui la sostanza stessa della individualità risulta
o risulterebbe morta. Defunta assieme a quegli slanci spirituali, o pedagogici
e moralistici che aveva dato prova di possedere integralmente nelle sue
sfaccettature – in particolare – il Bildungsroman in altra epoca. Ma che da Gli
indifferenti di Moravia ad Agostino, fino ad Arbasino, Fratelli d’Italia, con
Italo Calvino poi, Il sentiero dei nidi di ragno, Jean Paul Sartre con L’età
della ragione, Pasolini, Ragazzi di vita – per citarne alcuni -, si riappropria
nel ‘900 di uno spazio significativo, descrivendo nella narrazione sentimenti,
emozioni e turbamenti alla base dell’agire, vivendoli dalla testa dei
personaggi, dal di dentro, quindi, della loro individualità.
Individualità intesa (proiettivamente)
identità, dimenticata e cancellata dall’oblio del Sé. Un oblio funzionalistico
alle nostre attuali culture (o culti) del postmoderno, e della società che lo
abita, e che tutti abitiamo, spesso ridotti a mutilati delle domande. Quelle
stesse precise domande che riguardano l’identità di ognuno, ognuno immerso
senza respiro nel proprio mondo. Evelina Santangelo ci ha già compromessi in
passato con la sua letteratura: niente è mai consolatorio e niente è mai
conciliante, nel senso di prevedibile o assolutorio. Leggendola non siamo mai
al riparo, dalla parte dei giusti, intendo. E le domande, quelle vere, su noi
stessi, sul nostro essere nel mondo, ognuno determinandolo a suo modo, possono
affatto nascere solo dall’indagine sulla nostra propria formazione. Un
questione squisitamente prospettica, che – dopo La lucertola color smeraldo
(2003), Il giorno degli orsi volanti (2005), e Senzaterra (2008) – traccia un
punto di fuga d’ogni linea precedente: Cose da pazzi: una regia perfetta per
una storia da scoprire – letteralmente – nella storia
stessa. Affatto un romanzo dotato
di universi paralleli e simultanei. Tutto multidimensionato, ogni rigo, ogni
nome, ogni pensiero. E così ogni identità e fatto, da fenomeno a noumeno,
spingono imperiosamente dalla massa compatta del libro chiuso per farsi aprire,
ma meglio spalancare, e comunicarsi. In una sottilissima tensione narrativa
ogni elemento presente si fa, a un tratto, simbolo; metafora; allegoria. Ma
solo di se stesso, e mai di altro. Niente è altro da ciò che è, eppure tutto si
fa insidiosamente universale, e ci esplora, percorrendo gli spazi della nostra
cassa di risonanza, denudandoli kantianamente (“la cosa per me”, das ding für
mich). Fino all’ultimo rigo siamo stati accarezzati da una mimesis tanto
sapiente da averci celato l’abisso sul quale eravamo sospesi: il Sé profondo.
Quello che ci svelano le ultime parole, gli ultimi nomi, le ultime identità:
quelle che ci appartengono solo perché noi gli apparteniamo.
Farei un torto a
me stesso (più che all’Autrice) se non dichiarassi apertamente che, nel romanzo
di formazione contemporaneo, Evelina Santangelo tocca punti e luoghi e
possibilità del tutto inaspettati. Per alcuni forse insospettati. Il titolo
stesso sembra tenderci un tranello: la pazzia di un modo di dire, familiare e
innocuamente euforico sfogo: appunto, un modo di dire. Poi però, un modo di
fare, di pensare o non pensare mai, di vivere, di essere o non essere. Questo
titolo mi stizzisce, e mi colpisce indispettendomi: popolare e folcloristico
come sembra voler apparire per promettere una sorta di low profile e non farsi
notare, scontato e regionalistico, un frame semantico confluente di certi
generi letterari vignettistici, quindi volgari per antonomasia; mentre ci
sottopone ad una dolce e leggera iniziale lettura facendosi beffe del nostro
credulonismo – anime innocenti, ingenue – per poi fustigarci ad ogni capitolo,
sempre con maggiore violenza di bellezza e di lirismo dotato (addirittura) di
quel pudore, e di quel magistrale equilibrio che edifica, di macerie in
macerie, di umana speranza in disumana certezza, la storia di una domanda
universale. Se Herman Hesse, dopo aver scritto Demian, avesse letto Cose da pazzi,
si sarebbe trasferito e piantato a Palermo, anziché a Montagnola. Giusto per
non perdere mai di vista Evelina Santangelo. Una scrittrice che non si può
rischiare di perdere d’occhio.
Einaudi, con questo romanzo,
sembra spalancare – essa stessa – un’eco formidabile, destinata a ripercuotersi
(con violenza) su tutto il panorama della letteratura contemporanea italiana, e l’immaginario che l’accompagna
e – alle volte – la determina: una scelta affermativa (non dirò – troppo facile
- “coraggiosa”, di questi tempi) che ha il sapore del “ritorno al futuro”. Un
futuro auspicabile che, per gli amanti di quella letteratura e di quella prosa
affrancate da qualsivoglia ansia da prestazione editoriale, dichiara
apertamente tutta la sua naturale potenza, e ci penetra. E lo fa non postulando
nulla, bensì accade che le prove di un tale futuro – non mozzato o privo della
sua interlocuzione (fluida e fisiologica) col passato – siano tutte presenti
plausibilmente – nessuna esclusa - in Cose da pazzi. Ed è, Cose da pazzi, una
svolta. Senza ombre di dubbi. A mio giudizio,
io lo definirei «il caso Cose da
pazzi», o «il caso Evelina Santangelo». Per dire (…).
Intanto una critica ch’è una
protesta: trecentoventuno pagine non ci appagano. Ci violentano nella violenta
intensità stessa della storia di Rafael, ragazzino palermitano, «l’indiano
Rafael» – indio nel cuore della sua terra, o del suo dio – ch’entrambi sono
fatti di pochi vicoli che parlano un linguaggio misterioso con i loro odori
densi, spesso tumescenti, melmosi, appiccicaticci che rimangono – evocativi –
sulla sua duplice pelle siciliano- colombiana, o italiano-colombiana, incapace
di liberarsene fusi come sono, oscillanti come sono tra la Selva che la madre
Estella gli descrive nei racconti, e quella giungla che vive ogni santo giorno
nel quartiere Spina. Un mondo animale, biologico dotato di un suo peculiare
logos, diretto, alla vita, alle vite, che sembrano avvolgersi o attorcigliarsi
in un Dna depositato da alieni irrintracciabili, oscuri e potenti, oppure invisibilmente
e meccanicamente dediti a scolpirne le fattezze genetiche conseguenti sulle
facce e sui corpi e sui cenci che li ricoprono, occultandone in apparenza le
nudità, che riemergono poi nella generazione di quelli come Rafael o del suo
amico Richi, o del fratello più grande Nunzio, oppure della zecca di Eros, di
Lillo, di Uomo Pietra: sotto i loghi veri o falsi di abiti che li firmano, firmandone
le identità in formazione che si stampano e si lasciano stampare in serie a
cascata con l’omologazione dello status symbol che appare, sempre in quella
giungla asfittica, dove anche un gesto, un vestito, o una parola buttata lì
stimmatizzano – relativizzandole a un microcosmo sociale universalizzante dell’Avere
- la peggiore o la migliore delle condizioni sociali: le vere nudità, quelle che
contano. Sotto l’occhio implacabile di affannose brame del quartiere: un
quartiere che – come un polmone che ossigena o un cuore che pompa – passa in
rassegna tutte le sue cellule, poi i suoi organi, poi i loro metabolismi, per
determinarne, e poi sancirne, a suo modo, il diritto di cittadinanza, ch’è poi
il diritto alla vita. A quella vita. L’organismo-quartiere Spina deve restare intatto.
Deve nutrirsi solo di sé. Deve svoltare l’angolo che conduce alla strada per il
Centro solo a patto di esportare se stesso, capitalizzandone i rischi, le
tentazioni, parandone le contaminazioni, arginando ogni eventualità di
importazione “d’altro”, figuriamoci il mondo.
Il quartiere Spina è quindi un
grosso animale, poi che desidera, poi che languisce, poi che sogna, poi che
genera e che uccide (intimamente e intimisticamente) tutto ciò ch’è altro da
sé, e che possiamo definire sociale. Un “quartiere biologico” che isola coi
suoi anticorpi le diversità che diventano estraneità, impermeabilità, e quindi “disidentità-che-danno-identità”.
Il protagonista Rafael si ritrova spesso a identificare “mutanti”, presenze inquietanti
perché affette da quell’apparenza gestuale propria delle improvvise teofanie del
possibile – sconosciuto quindi inaspettato -, nel microcosmo che si nutre
invece dell’impossibile porta di uscita dal “videogame” (che sembra quello di
Gabriele Salvatores (Nirvana) dove Diego Abatantuono vive ogni giorno la sua
vita e il suo destino immutabile di marionetta digitale): non si sa bene da
dove provengano i mutanti, anche se qualcuno lo sa e gli è del tutto
indifferente, basta che non rubino il lavoro a loro, ma una cosa è certa:
uscire da quella porta da cui taluni, a sprazzi, entrano significa morire.
Morire nell’unica certezza che si ha a disposizione: la comunità originale. Il
suo naturale equilibrio paradossale. La sua ansia fisiologica, oppure apatia
insinuante in cui Rafael è abituato a interrogarsi sulle sue paure identitarie,
che appaiono in incubi della psicologia evolutiva, o in stati e tentativi di decodifica
sospesa, o attaccata a un lembo della sovrapposizione visiva orinirizzante. Il
branco che lascia emergere i maschi alfa, o quelli che sembrano destinati a diventarlo:
ed essere così in quel linguaggio vuol dire sentirsi i padroni di tutto e di
tutti.
La galleria di ritratti, con la
sintesi e l’efficacia e la manualità di un Degas (di cui ricorda anche le inquadrature
pre-pro-fotografiche), si impone da subito con e nelle sue relazioni, che agli
occhi del ragazzino Rafael risultano da subito essenziali, e per la sua dignità
sociale, e per le insidie alla sua formazione, che deve necessariamente contemperare
nella collettività la sua parte straniera ante litteram, diversa, colombiana
della madre Estella, «anche se è italiana a tutti gli effetti».
Ma, a un tratto, tra lo scorrere
di tutto ciò che Rafael ipotizza ormai conoscere, il quartiere organismo cambia.
I padroni si fanno visibili, tronfi, ma anche esplicano il ruolo dei guardiani “benevoli”.
Come sentinelle attente che circoscrivono quelle esistenze, tracciandone i
confini invalicabili o disegnandone perimetri nuovi: è il progresso. Una
razionalizzazione infaticabile degli spazi, dei respiri, delle aspirazioni,
ottimizzazione degli accomodamenti, delle funzioni utili al territorio. L’organismo
cresce. Il progresso non è un assoluto, nei suoi volti dei longue-bar, delle sale-gioco,
dei videopoker, dei gratta e vinci “irregolari” che raschiano quei fondi di
secchi delle sole speranze rimaste ai più diseredati, sommando miseria morale a
miseria materiale, rubando truffando sordidamente, arraffando dai meschini fino
a togliergli tutto con il cinismo proprio e divino della natura dei più forti
della giungla, una legge di sopravvivenza della natura stessa, implacabile e
inflessibile nel suo corso. È il caso di dire: nessun progresso, solo un infame
sviluppo.
Agli occhi di Rafael tutto si
deforma, forse anche gli odori, o le puzze caratteristiche, il girovagare dei
cani del quartiere, i calcinacci dei palazzi con le loro geografie cadute di
anni in cui si è vissuti accumulando ricordi, le luci giallognole dei lampioni
che sembrano fatte a posta per fare «le facce a minestra», la fogna a cielo
aperto che don Cosimo, nella chiesa su cui si arrampicano santi e angeli imbrattati
dagli escrementi dei piccioni o dei loro nuovi predatori, i gabbiani, travia e
adatta nel senso dei «sordomiti» che sono lì, nel quartiere con numeri civici
precisi (…), la Casa Caduta storica, nella sua storia di assi e calcinacci e
ripari dei gatti tutti neri figli della stessa gatta nera un tempo morta, coi
loro occhi gialli, che crescono assieme ai verdi delle foglie delle piante,
mentre tutto cresce, inesorabilmente cresce… E così le vite giovani, e così i
disagi di quelli schiacciati dalla
disoccupazione, come Marcello
Lomunno, ex operaio, padre di Rafael e figlio del quartiere Spina, il quartiere
padre di tutti, dei buoni e dei cattivi (o meglio, captivi, prigionieri nati
imprigionati da quel sole magnifico di Sicilia, che però sorge e tramonta in un
attimo, in quei vicoli “oscuri”, e che vanno però illuminandosi di insegne
coloratissime da sembrare astronavi in decollo, tra odori nuovi e mielosi e
smaccati insopportabili, tra folle e follie notturne dei turisti, tra la calca
di passi estranei e estranianti per Rafael). Il caos del nuovo nel perfetto
ordine del vecchio caos.
Sono, per Rafael Lomunno,
astronavi grottesche e minacciose quei nuovi commerci, ristoranti, tabaccai,
negozi formicolanti di notte a tutta musica, stridenti e taglienti della storia,
la sua storia, se pur breve intensa e vissuta e fonte costante di turbamenti.
Che sarebbero capaci, decollando con tutto il quartiere Spina, di sradicare
tutto, forse anche lui, o forse suo padre, sua madre Estella, i suoi amici o
compagni di classe, forse anche Fiorella, coi suoi balconi ipnotici per alcuni
che se la sognano, dove i suoi gatti hanno fatto una scelta ben precisa: stare
lì, con lei-lui, e mai lasciare le loro radici fatte di storia felina. L’unica
storia realmente fedele. L’unica che se sceglie sceglie.
Come la storia della
professoressa Rita (una supplente, una «che oggi c’è e domani non c’è», che ha scelto
di stare lì con quella sua diversità inequivocabile che si porta attaccata
addosso, evidente su quei suoi occhi verdi che sembrano gli unici a vedere
oltre. Oltre il piccolo-grande organismo del quartiere, oltre le cassette di
frutta che quasi le impediscono di entrare nel suo portone, cassette arroganti
anch’esse, padrone e serve, nel giuoco dei ruoli che finanche gli oggetti
mostrano di saper possedere, oppure i cani Bumma, Ciccia e Fifa, che del
quartiere e dei suoi abitanti sanno tutto, e che ne scortano i cammini e i
percorsi - presenze che in Cose da pazzi sono talmente forti, come a depositarne
ogni memoria possibile in se stesse, più umanamente delle umane memorie. Forse.
Giungono allora le lezioni della
professoressa Rita. Sono sassi infettivi scagliati da quegli occhi verdi,
verdissimi, a contaminare Rafael Lomunno. Ma perché? Cosa c’è che (s)valica e
(s)valuta gli anticorpi?, che rompe la membrana di una piccola cellula?
Cose da pazzi ci riporta allora
indietro, al tempo in cui ognuno ha sperimentato quegli incontri che si sono
resi indimenticabili, stampati nella carne della nostra adolescenza, del nostro
cammino ineluttabile di formazione; tra le muraglie invisibili del nostro io e
le brecce aperte da alcuni altri.
“Quattro denti da cavarsi uno
dietro l’altro, come ha fatto sua madre con il suo ultimo dente da latte che
Rafael nemmeno sapeva di avere ancora prima che iniziasse a dondolare. «Vieni
qui, - gli ha detto. Gli ha infilato le dita in bocca e gliel’ha staccato. –
Abbiamo finito. Qua ormai sei tutto cresciuto». Così, adesso, Rafael sente il
buco della gengiva rimasta vuota sotto la lingua. La cosa più brutta di questa
storia che uno deve crescere… riempiendosi per forza di buchi.”
È il tempo di crescere, per Rafael
Lomunno. Per il suo corpo da latte di accettare, dolorosamente, tutti i buchi
nella sua carne tenera, e incerta; buchi che sono spiragli dai quali guardare –
come occhi puntati sull’ignoto – ciò che la vita farà di lui. Minacciosi
presagi: un canarino morto divorato dagli acari, nonostante le cure di Lilla la
Stronza e di Scimunito col Bollo (esperto di uccelli); Maura la Grossa e il
marito arrestati dalla polizia perché trafficavano portando la pasta ai
latitanti o «a quella persona»; il comizio nel quartiere di un politicante
candidato al consiglio comunale, e un buffet a cui tutti, o quasi, si accalcano
a bisbocciare, mentre si spellano le mani ad applaudire; dopo la protesta sui
tetti della fabbrica, il padre Marcello diventato «disoccupato» costretto ad
accettare un posto da cameriere all’hollivudiano ristorante La Porta del Sol,
di Cetti e Salvo, ma coi soldi mafiosi dei fratelli Setola: i veri padroni del
quartiere Spina, delle vite di tutti, se uno vuole restare e viverci; una bara
che non si riesce a tumulare normalmente perché finanche questo diritto alla
morte in pace deve transitare per un favore chiesto a qualcuno… È allora il
quartiere-animale-biologico solo un esperimento in provetta?, un videogame
gestito da invisibili e intangibili alieni che lo manipolano a piacimento da un
universo parallelo? E gli umani che ci vivono, dunque, chi sono allora? Le loro
umanità semplici e incolpevoli, compromesse ante litteram ma
consapevoliinconsapevoli, a tratti l’una e l’altra, quanto sono coscienti?, e
quanto vedono il sole sorgere e tramontare nel loro spazio e sulle loro facce,
sui loro corpi, sui loro sentimenti, sui destini immaginando o ignorando che,
forse, anche quel sole, evocato grottescamente nella Porta del Sol, sia un
astro sintetico, artificialmente messo lì da qualcuno? E, se così fosse, come
dobbiamo
considerare le loro vite? Forse
che fuori da quei vicoli, da quei palazzi, dalla quella fogna a cielo aperto,
nel resto del mondo (che immaginiamo libero) le cose vanno diversamente?
Evelina Santangelo ci interroga,
ma prima si interroga, su questo: Palermo, la Sicilia, la Mafia, l’intreccio
inestricabile degli interessi tra crimine organizzato, stato, nazione,
cittadino-elettore, quindi clientela politica, chiesa, parrocchia, commercio,
impresa, intermediari e faccendieri d’ogni livello, favori che sarebbero
diritti, diritti che sono solo vacue parole, gesti inconsapevoli che si consumano
nel quotidiano, forme di pensiero, modi, atteggiamenti, protezioni, leggi,
asservimenti, compromessi anche minimi che reputiamo normali e innocui,
eccetera eccetera eccetera…
E ancora: Palermo non è solo un
nome di comodo? (dico io). Sarà Nunzio Russo, il fratello
maggiore e mafioso di Richi, a
sperimentarlo sulla sua pelle: partito per Milano credendo di poter esportare
se stesso e la sua maglietta personallizzata da Joe Rivetto: “Tutti possono
essere Nunzio Russo. Basta solo avere il coraggio di uscire la parte nascosta
di noialtri, e se uno ha paura è frocio”.
Quanto amara e indeglutibile è
questa sgrammaticata personalizzazione… Posso immaginare la scrittrice mentre
la scriveva… “noialtri” (ri)dice tutto, e così “frocio”: ironia come fiele,
cicuta, e non dobbiamo neanche nessun gallo ad Asclepio… nessuno in sogno
potrebbe mai guarirci dai nostri mali, italiani.
E non “siciliani”!
È la nostra sostanza ad essere
sgrammaticata. I concetti e i valori che ne conseguono. Le nostre consapevolezze
che, a volte, crediamo possano fare a meno delle utopie. Gli Stati, lo Stato, finiscono
solo per essere uno Status Quo delle cose tutte. Dietro le infinite maschere
del potere. Maschere che cambiano, vertiginosamente come cambiano i nomi dei
partiti: dopo ogni catastropoli e truffopoli. Affinché tutti possiamo sentire
la carne dei personaggi di Cose da pazzi accanto alla nostra, coi loro odori, i
loro acri sudori, e una buona spruzzata di blue Floid che Vito il barbiere ci farà
dietro le orecchie e sul collo, esclamando: “Niente, non ti preoccupare, lo
segno. Quando ce li hai, me li dai”.
La formazione del giovane Rafael
Lomunno-Rodrìguez è una storia scritta un po’ da noi tutti, così pieni zeppi di
debiti verso le nuove generazioni di viventi. Quei debiti insoluti, non onorati
che l’indiano Rafael – ormai adulto – troverà nella Milano degli onesti, di
quelli che accettano ogni lavoro possibile, per sopravvivere a questo Stato e a
questo Status. Schiavo deportato nella “civiltà”
che naviga tra milioni di altri
schiavi del nostro tempo. Ma libero, e per questo dolente di una coscienza
profonda del suo Sé, solo grazie ai suoi nomi, i nomi della sua terra, ch’è poi
anche la nostra terra. Quella che sembra tutti strappiamo a tutti. Mentre il
quartiere Spina è ormai dovunque.
Nell’epigrafe di Cose da pazzi,
Evelina Santangelo ha scritto: «Siccome il mondo è tondo è fatto per muoversi,
girarlo. Estella Rodrìguez»…
Salvatore Maresca Serra
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