martedì 17 marzo 2020

Restiamo in contatto














In questi giorni le riflessioni sono inevitabili, bussano a tutte le ore e non si può lasciarle fuori dalla porta. Ce n'è una in particolare che mi torna spesso in mente e allora ho deciso di metterla per iscritto, sollecitata anche dall'articolo di Maria Piera Ceci «Il prof ti viene a prendere attraverso la webcam» che per il Sole24Ore ha intervistato la mitica professoressa Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e prorettrice dell’università di Padova, sulla situazione della didattica a distanza che le scuole di tutta Italia, di ogni ordine e grado, si sono trovate e vivere.
«La tecnologia» dice «invece di essere qualcosa che sostituisce la presenza del professore, è qualcosa che consente la presenza del professore. (…) La tecnologia che fa la tecnologia e non che fa qualcosa al posto nostro. A cui non viene più affidato il compito di impegnare il nostro tempo e di risolvere le nostre difficoltà, ma la tecnologia in cui l’umano utilizza un mezzo per arrivare all’altro umano.» Come non essere d'accordo. Quello che ci è capitato, da un mese a questa parte, è qualcosa di inimmaginabile che destabilizza tutti, a prescindere dal ceto, dalla professione, dalla cultura, siamo tutti nel gigantesco frullatore, per citare Dario Amadei, che è stato acceso contro la nostra volontà, ma che inevitabilmente ci risucchia inermi nel suo vortice. Per non stare solo a guardare gli avvenimenti accadere e per non perdere di più di quanto perderemo, ecco che per la maggior parte delle professioni, soprattutto quelle scolastiche, è stato attivato lo smart working o lavoro agile ed ecco che insegnanti di ogni ordine e grado riempiono i loro dispositivi con vari software per permettere la tanto idealizzata didattica a distanza. Il pensiero, però, che da dieci giorni bussa alla mia porta non è tanto l'efficienza o meno di questo lavoro agile, quanto le menti dei giovani e giovanissimi che sono stati, giustamente, allontanti da un luogo, diverso dall'ambiente protetto di casa, che per loro non è solo negativo (compiti, interrogazioni, incomprensioni di vario tipo) ma aggregativo, in cui diventano grandi, in cui sviluppano il pensiero critico, l'autonomia, in cui sperimentano emozioni positive e negative che fanno crescere. E questo avviene solo grazie al confronto umano con l'adulto di riferimento e con i compagni con cui si relazionano. Più i bambini sono piccoli più il bisogno di un'educazione umanizzata è imprescindibile e insostituibile, ma anche per i ragazzi più grandi il contatto diretto è fondamentale. Se l'insegnante, la famiglia, il ragazzo non sono smart così come li vorrebbe la tecnologia, la possibilità di sentirsi “abbandonati” non è così difficile e quello che mi auguro più di tutto è che tutti noi adulti che lavoriamo con i ragazzi, a diverso titolo, ci facciamo trovare pronti a sostenerli e ad abbracciarli quando tutto questo sarà finito, perché il trauma vissuto in questo momento potrebbe essere significativo e da non sottovalutare.
Elena Sbaraglia, psicologa, operatrice culturale


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