Ci sono alcune giornate che ci appaiono
interminabili. Lunghe, lunghissime, infinite giornate affannose. Quando l’unico
momento che attendiamo è gettarci sul nostro caro letto, spegnere la luce,
chiudere gli occhi e dire momentaneamente addio al mondo. Spegnere la mente e
trovare un po’ di pace, in un porto sicuro. Mettere da parte tutto e tutti, e
immergerci a capofitto nei tortuosi meandri del proprio inconscio, lasciandoci
cullare dall’intangibile fascino della notte. E sognare magari. Perché i sogni non
sono altro che l’essenza della libertà, della beatitudine. Un momento di
tangibile felicità, dopo ore ed ore di monotono tran-tran quotidiano. Attimi in
cui persino l’inimmaginabile è possibile, accade; e tutto è semplicemente come
noi desidereremmo che fosse.
Talvolta però, taluni sogni sono tutt’altro che
estasi. Spesso pare che i fantasmi che ci perseguitano da svegli, non ci diano
tregua mai, neanche nella notte. Sudiamo. Imprechiamo. Soffochiamo. Urliamo.
Semplicemente non abbiamo pace. Bé, per me non si tratta di sogni. Piuttosto mi
piace chiamarli incubi.
Questa notte ho vissuto una delle esperienze
oniriche più coinvolgenti di sempre. E mi piacerebbe condividerla con voi, per
mostrarmi come, persino l’incubo più terrificante, può trasformarsi nel sogno
più incantevole.
“Sono le 10 di sera. Mi sveglio confusa e
palpitante. È tardissimo. Sono in partenza per non so quale meta, e come sempre
accade prima di un avvenimento rilevante, sono in super ritardo. Devo ancora
sistemare i bagagli, trovare i documenti, fare una doccia, vestirmi,
prepararmi. È una corsa contro il tempo. Tutti i miei abiti sono scomparsi
dall’armadio. Impazzisco per casa alla ricerca dei miei effetti personali, ma
niente di niente. Per di più mi sento intrappolata dalla pesantezza del sonno:
gli occhi non vogliono restare aperti, le mie gambe sono stremate, la mia testa
cade di qua e di là, in cerca di riposo. E il tutto non fa che rallentarmi. Una
dannata corsa verso l’impossibile.
Esco di casa, con indosso soltanto il mio pigiamino.
Sono scalza. E in mano ho un biglietto aereo, ma non riesco a leggere la
destinazione. Cerco disperatamente un aeroporto o qualcosa del genere. Sono
sola, disperata e persa nelle tenebre. Brancolo nel buio alla ricerca di una
salvezza, lottando contro la pesantezza del dormiveglia. Di tanto in tanto in
lontananza scorgo qualche figura evanescente, ma la mia voce sembra insonora.
Grido, urlo, mi dimeno, ma nessuno mi dà ascolto. E ogni volta che riesco a
raggiungere una di quelle presenze, questa si dissolve nel nulla. Corro. Corro.
E ancora corro, in preda al panico più totale. Una maratona verso il nulla.
Inciampo. Cado. Sembro quasi arrendermi e lasciarmi andare alla forza di
gravità. Ma no. Mi rialzo. E continuo a correre. Sudo. Corro. Il mio cuore sta
impazzendo. Urlo grida di silenzio. I piedi scalzi, sono sudici e insanguinati.
Ma ancora corro. Fino a quando cado, di nuovo. (E se fino a quel momento fossi
stata convinta di assaggiare il puro terrore, allora non saprei come definire
ciò che mi sta per accadere). Vorrei rimettermi in sesto, ma non ce la faccio.
Una misteriosa forza, più oscura e travolgente di quella di gravità mi
trattiene al suolo. Mi sussurra che quello è il mio immodificabile destino. La
fine della maratona. La mia fine. Vorrei reagire, ma i miei arti sono
pesantissimi, e immobili. Come incatenati da qualcosa di invisibile. E ancora
più straziante, vorrei gridare, ma la voce non fuoriesce. Ogni urlo soffocato
ritorna giù come un amaro magone. È come se le mie labbra fossero incollate tra
di loro. Continuo ad agitarmi. Tento di scalciare, di tirare pugni, ma ogni
tentativo si rivela mera illusione. Sono intrappolata. Condannata. Non mi resta
che accettare la mia condizione, chiudere gli occhi e smettere di sperare.
Smettere di respirare. Perché ogni respiro equivale ad un struggente istante in
più della tortura.
La resa però non è nel mio stile. Correrò la
maratona fino al traguardo. Ricomincio a dimenarmi. Ci deve essere una
soluzione. Per forza. Tutte le maratone hanno una linea di traguardo.
Esattamente nell’istante in cui ogni sforzo mi era sembrato completamente vano,
noto che riesco a sentire un filo di voce. Si, si, lentamente la mia voce sta
riacquisendo il suo vigore. Un barlume di speranza. Non finisce qui, non per
me. Gli arti però sono ancora bloccati. Mi sento tirare in quattro direzioni
divergenti. Ma non mi arrendo. Combatto per svincolarmi, voltandomi a destra
prima, a manca poi; come per scrollarmi di dosso quella forza oscura. Sudo.
Grido. Impazzisco. E ancora grido. Sudo. Piango. Tremo. Sanguino. Grido per la
disperazione. Per il dolore. O semplicemente perché sono ammattita. Ma non mi
arrendo. E proprio quando sento di essere arrivata all’extremis, quando sto per
gettare la spugna e cedere la mia anima alle tenebre; quando credo di non avere
più alcuna ragione in nome della quale combattere; quando tutto è vano, e
niente è stimolo, proprio allora affiora una forza misteriosa. Con tutta la mia
energia residua, proietto il mio corpo verso destra e cado. Precipito. Sempre
più in basso. E il solo poter muovere liberamente gli arti, mi da sollievo. Un
incredibile gustosa soddisfazione. Un gesto così spontaneo, e naturale assume
per me l’entità di un miracolo. E perdendomi nelle mie riflessioni, mi sveglio
in un luogo totalmente diverso. Cammino sulla sabbia calda, sicura di me,
vittoriosa, imponente come una grossa nave. Certa di aver tagliato il
traguardo. Mi guardo attorno e percepisco di ritrovarmi in un paradiso
terrestre. Il sole sta sorgendo. Il mare, cristallino, è calmissimo. Di qua e
di là svolazza qualche gabbiano. È così bello udire finalmente i dolci suoni
della natura.
La certezza di ritrovarmi in una sorta di locus
amoenus, mi giunge quando scorgo lui ad attendermi tranquillamente seduto su
uno scoglio. L’imperturbabile lui.
Corro a più non posso, ansiosa di gettarmi tra le
sue braccia. Ed eccolo, finalmente a pochi millimetri da me. In quel preciso
attimo ogni sforzo assume significato, ogni struggente lotta trova il suo
conforto, il suo dolce ristoro. Mi abbraccia forte, e quell’abbraccio mi ridona
la vita. Mi perdo nell’infinito dei suoi occhi verdi, che luccicano sotto la
tenue luce del primo sole. Mi stringe più forte, inspira l’odore della mia
pelle, e mi sussurra: “Finalmente! Tutta per me!”
Ci prendiamo per mano, e ci tuffiamo nell’immenso
azzurro per vivere insieme il nostro sogno.”
Fine.
Filomena "Lok" Locantore
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