venerdì 4 novembre 2011

Una volta c'era il pensiero... di Ombretta D'Ulisse

Riflessioni su “Terraferma” di  Emanuelee  Crialese.
Mare Nostrum, un’isola.
Il giovane Filippo, orfano di padre, vive con la madre Giulietta e il Nonno Ernesto, anziano pescatore saldamente ancorato alle sue radici e al suo, ormai infruttuoso, mestiere. E appunto, in mare, Filippo ed Ernesto salvano una clandestina incinta e suo figlio. E anch’essi contravvenendo alle leggi, nascondono i due, se ne occupano, spinti solo da un puro, quanto encomiabile, istinto umanitario.
La storia si snoda intorno al perno di quest’avvenimento accendendo un piccolo mondo turbato da uno sbarco drammatico, un piccolo mondo che già dolorosamente sta facendo i conti con un mare che non basta più alla sopravvivenza e con le poche risorse che offre un turismo non proprio di massa.
Gli abitanti dell’isola sembrano condannati da quella bellissima natura in cui sono immersi e che li irretisce come un canto delle sirene, abbagliati da quel mare la cui traversata nutre nella protagonista femminile, madre del giovane Filippo, la fiducia di una vita migliore e ne accomuna la speranza ad un’altra madre che a quelle stesse acque ha affidato la sua vita, il grembo gravido e il giovanissimo figlio. La giovane vedova isolana metterà le sue mani sapienti nel permettere la nascita di una creatura sopravvissuta ed è il secondo segnale dopo il soccorso dato in mare dal vecchio che quel mondo, quasi convinto di non aver risorse può, al contrario, dare la vita, semplicemente attingendo a una istintualità empatica.
Le femmine si annusano, si riconoscono tra le doglie di un parto, nell’abbraccio a un neonato sebbene ognuna chiusa nelle proprie ferite, ognuna rapita da speranze che generano ansie verso un futuro ignoto.
I vecchi pescatori rivendicano le loro radici, i più giovani auspicano “riconversioni” che tentino di incrementare, invogliare il turismo: ci si arrangia, arrabatta e nessuno in cuor suo pensa che da quel microcosmo inquieto e in parte dis-perato ci siano risorse per accogliere, aiutare l’altro quello, sicuramente ancora più disgraziato. E non sarà così e qui si apre con prepotenza il senso di una pietas che scaturisce proprio dal vecchio pescatore che riconosce solo la legge del suo mare che lo obbliga, come una legge naturale, a soccorrere uomini in mare.
E su quell’imperativo morale semplice ma lapidario si fonda il senso della storia che invoca la legge naturale al di sopra di quello che dicesi diritto oggettivo e, nello specifico, vieta di soccorrere “clandestini”.
Il mare ha le sue leggi e queste riconoscono la sacralità della vita; gli anziani le conoscono, la cocciuta purezza del loro pensiero colpisce per le certezze che contiene e che le nuove generazioni non sono in grado di recepire perché irrimediabilmente contaminate dalle urgenze della quotidianità, dal tentativo di progettare un futuro che li liberi dalla condizione in cui si trovano.
La pietas degli antichi permetteva che si assecondassero i valori fondamentali della vita,che si soccorresse la sofferenza, si rispettasse il destino altrui senza giudicare, si curassero le piaghe del dolore. La pietas degli antichi conteneva nel suo stesso sentimento l’empatia.
 L’immagine del nero che si spiaggia come una balena sul litorale pieno di turisti rimanda ad un’anima di cui non vogliamo più percepire il battito ma che ci si propone, nel momento di massimo godimento, come l’ineluttabilità del dolore che nel nostro mondo tentiamo continuamente di rimuovere o al quale siamo mediaticamente assuefatti.
Troppo facile farsi sorprendere dalla tentazione di attribuire alle infinite mutevoli acque di Crialese la valenza di un liquido amniotico come cifra della vita,quella che rimanda all’istinto di sopravvivenza, quella vita che in mare, al mare affida le speranze di una ri-nascita,quella che ci offre lo spettacolo del dolore nella sua verità affinché ne possiamo suggere sentimenti dimenticati?   
Ombretta D’Ulisse

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