Oh che sarà, che sarà
quel che non ha ragione né mai ce l’avrà
quel che non ha rimedio né mai ce l’avrà
quel che non ha misura?”
(Chico Buarque de Hollanda)
“Cosa sarebbe delle stelle e dei fiori”, scriveva
Lino Villachá da una stanza del sanatorio SãoJulião, “se il destino solo gli
riservasse / di fiorire e appassire nel vuoto della solitudine?” … “Che sarebbe
del mio dolore / e che sarebbe del tuo soffrire”, continuava il poeta, “se solo
fosse dolore / se solo fosse soffrire / senza far nascere nulla / nel profondo
del nostro essere?”
Brasiliano, nato alla fine degli anni ’30 nel
povero stato del Mato Grosso do Sul, ai confini con il Paraguay, così Villachá
ricorda la sua infanzia vissuta a Campogrande, nel BairroSão Francisco, in una baracca
di legno:
“Sono nato in una casa di campagna che apparteneva
a mio padre, José Maria Antonio Villachá, argentino, figlio di spagnoli. Mia
madre era russa, nata in una regione vicina alla Romania. I miei genitori
appartenevano entrambi a famiglie di immigrati che erano giunte in America alla
ricerca di una vita migliore. Eravamo sei fratelli, cinque uomini e una donna,
io sono il più vecchio. Siccome non avevamo letti per tutti, dormivamo due
fratelli in ciascuno. La vita di estrema povertà minava le difese naturali del
nostro organismo. Da ogni letto un fratello è diventato portatore di
hanseniase, oltre a mio padre e mia madre. Sono stato portato al SãoJulião
quando avevo appena dodici anni. I miei genitori sono morti in questo ospedale,
così come uno dei miei fratelli.”
La vita al sanatorio SãoJulião, dove Lino Villachá
rimase per quasi quarant’anni – dal 1951 fino alla morte avvenuta alla fine
degli anni ’80 – è quella di un internato, un uomo affetto da un male incurabile
e degenerativo che vive in regime di isolamento con persone toccate dalla sua
stessa sorte (alle quali, spesso, devono essere addirittura amputati gli
artiper evitare il peggio).
Quale è la via d’uscita da questo tunnel nero che
sembrerebbe senza fine? La fede in Dio, probabilmente; la scrittura,
sicuramente. Villachá, all’ospedale, ha tempo per pensare, studiare, riflettere
sulla vita, diventando un sempre più assiduo scrittore, regalandoci pagine di
ricordi d’infanzia che sembrano quasi sconfinare nel letterario:
“Papà aveva un vecchio camion Ford V-8, tutto
sgangherato per il gran viaggiare nella foresta a prendere legna da vendere
agli alberghi e alle case. Noi eravamo gli aiutanti. Quando il camion si
impantanava, scendevamo tutti a spingere, mettendo rami verdi e pietre sotto le
gomme. Nella salita alla montagna di Sapé, con otto metri cubi di legna, il
forte motore del vecchio V-8 si lamentava tremante, ma saliva. Hurrà! Papà
gridava di gioia! Ma non posso dimenticare la volta che ci toccò ritornare a
piedi…
Era divertente incontrare per la strada un
rigagnolo che scorreva nella sabbia bianca, nascosto in mezzo a un bosco. Gli
uccelli facevano echeggiare nei campi un canto disperato, e il verde della
campagna era un manto unico, fino al nostro arrivo in città. Se la notte ci
sorprendeva in cammino, le lucciole ci mostravano la strada, fino a quando
vedevamo in lontananza le prime luci del quartiere.”
Oltre a scrivere, Villachá ha tempo per svolgere
molte altre attività al sanatorio SãoJulião : diventa uno dei principali organizzatori
della vita sociale dell’ospedale, contribuendo a migliorarne significativamente
i servizi (fondando perfino una squadra di calcio); e soprattutto, s’innamora
di Maria, “dolce ed indimenticabile compagna in questo cammino di sofferenza.”
Le poesie e gli scritti di Lino Villachá – raccolti
nel libro “Una finestra per i passeri”, pubblicato nel 1989 dalla Elle Di Ci e
oggi difficilmente reperibile – ci parlano di un uomo che, sebbene duramente
provato dalla lebbra, male che gli ha portato via le persone più care, è
riuscito a far crescere dentro di sé sentimenti di speranza e coraggio.
La poesia “Speriamo…” ben conclude questo rapido
affresco della sua vita, fatta di attenzione e di amore per gli altri
nonostante la situazione personale di fragilità estrema : una delle molte e silenziose
testimonianze di “eroismo quotidiano”, lontane da clamori mediatici e per
questo ancora più “assordanti”, di cui è costellato il cielo della misteriosa e
complicata storia dell’essere umano.
“Sto vivendo, quando sento
Che la tua felicità è la mia felicità.
Sto vivendo, quando curo il tuo fiore
Nonostante la durezza delle spine.
Sto vivendo, quando mi inquieto per il tuo amore.
Quando lotto, quando reclamo…
Sto vivendo, quando amo…
Ma morirei, quando smettessi di lottare
Guardando il fiume scorrere
Dal ponte della vita
Fermo con i remi in barca…
Morirei,
con tante vite che hanno bisogno della mia
e io qui, perso nel fango di questa solitudine
con tanta luce là fuori,
e io qui, chiuso in questa vita, morendo,
quando addirittura le foglie morte cadono eterne
e danno nuova vita alla primavera.”
Alfredo Tagliavia
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