mercoledì 7 maggio 2014

LINO VILLACHÁ di Alfredo Tagliavia

Oh che sarà, che sarà
quel che non ha ragione né mai ce l’avrà
quel che non ha rimedio né mai ce l’avrà
quel che non ha misura?”
(Chico Buarque de Hollanda)

“Cosa sarebbe delle stelle e dei fiori”, scriveva Lino Villachá da una stanza del sanatorio SãoJulião, “se il destino solo gli riservasse / di fiorire e appassire nel vuoto della solitudine?” … “Che sarebbe del mio dolore / e che sarebbe del tuo soffrire”, continuava il poeta, “se solo fosse dolore / se solo fosse soffrire / senza far nascere nulla / nel profondo del nostro essere?”

Brasiliano, nato alla fine degli anni ’30 nel povero stato del Mato Grosso do Sul, ai confini con il Paraguay, così Villachá ricorda la sua infanzia vissuta a Campogrande, nel BairroSão Francisco, in una baracca di legno:
“Sono nato in una casa di campagna che apparteneva a mio padre, José Maria Antonio Villachá, argentino, figlio di spagnoli. Mia madre era russa, nata in una regione vicina alla Romania. I miei genitori appartenevano entrambi a famiglie di immigrati che erano giunte in America alla ricerca di una vita migliore. Eravamo sei fratelli, cinque uomini e una donna, io sono il più vecchio. Siccome non avevamo letti per tutti, dormivamo due fratelli in ciascuno. La vita di estrema povertà minava le difese naturali del nostro organismo. Da ogni letto un fratello è diventato portatore di hanseniase, oltre a mio padre e mia madre. Sono stato portato al SãoJulião quando avevo appena dodici anni. I miei genitori sono morti in questo ospedale, così come uno dei miei fratelli.”

La vita al sanatorio SãoJulião, dove Lino Villachá rimase per quasi quarant’anni – dal 1951 fino alla morte avvenuta alla fine degli anni ’80 – è quella di un internato, un uomo affetto da un male incurabile e degenerativo che vive in regime di isolamento con persone toccate dalla sua stessa sorte (alle quali, spesso, devono essere addirittura amputati gli artiper evitare il peggio).
Quale è la via d’uscita da questo tunnel nero che sembrerebbe senza fine? La fede in Dio, probabilmente; la scrittura, sicuramente. Villachá, all’ospedale, ha tempo per pensare, studiare, riflettere sulla vita, diventando un sempre più assiduo scrittore, regalandoci pagine di ricordi d’infanzia che sembrano quasi sconfinare nel letterario:
“Papà aveva un vecchio camion Ford V-8, tutto sgangherato per il gran viaggiare nella foresta a prendere legna da vendere agli alberghi e alle case. Noi eravamo gli aiutanti. Quando il camion si impantanava, scendevamo tutti a spingere, mettendo rami verdi e pietre sotto le gomme. Nella salita alla montagna di Sapé, con otto metri cubi di legna, il forte motore del vecchio V-8 si lamentava tremante, ma saliva. Hurrà! Papà gridava di gioia! Ma non posso dimenticare la volta che ci toccò ritornare a piedi…
Era divertente incontrare per la strada un rigagnolo che scorreva nella sabbia bianca, nascosto in mezzo a un bosco. Gli uccelli facevano echeggiare nei campi un canto disperato, e il verde della campagna era un manto unico, fino al nostro arrivo in città. Se la notte ci sorprendeva in cammino, le lucciole ci mostravano la strada, fino a quando vedevamo in lontananza le prime luci del quartiere.”

Oltre a scrivere, Villachá ha tempo per svolgere molte altre attività al sanatorio SãoJulião : diventa uno dei principali organizzatori della vita sociale dell’ospedale, contribuendo a migliorarne significativamente i servizi (fondando perfino una squadra di calcio); e soprattutto, s’innamora di Maria, “dolce ed indimenticabile compagna in questo cammino di sofferenza.”
Le poesie e gli scritti di Lino Villachá – raccolti nel libro “Una finestra per i passeri”, pubblicato nel 1989 dalla Elle Di Ci e oggi difficilmente reperibile – ci parlano di un uomo che, sebbene duramente provato dalla lebbra, male che gli ha portato via le persone più care, è riuscito a far crescere dentro di sé sentimenti di speranza e coraggio.
La poesia “Speriamo…” ben conclude questo rapido affresco della sua vita, fatta di attenzione e di amore per gli altri nonostante la situazione personale di fragilità estrema : una delle molte e silenziose testimonianze di “eroismo quotidiano”, lontane da clamori mediatici e per questo ancora più “assordanti”, di cui è costellato il cielo della misteriosa e complicata storia dell’essere umano.

“Sto vivendo, quando sento
Che la tua felicità è la mia felicità.
Sto vivendo, quando curo il tuo fiore
Nonostante la durezza delle spine.
Sto vivendo, quando mi inquieto per il tuo amore.
Quando lotto, quando reclamo…
Sto vivendo, quando amo…
Ma morirei, quando smettessi di lottare
Guardando il fiume scorrere
Dal ponte della vita
Fermo con i remi in barca…
Morirei,
con tante vite che hanno bisogno della mia
e io qui, perso nel fango di questa solitudine
con tanta luce là fuori,
e io qui, chiuso in questa vita, morendo,
quando addirittura le foglie morte cadono eterne
e danno nuova vita alla primavera.”

Alfredo Tagliavia

Nessun commento:

Posta un commento